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Arrampicata in Val San Nicolò

Mario Prinoth racconta la sua arrampicata in Val S. Nicolò.

Mi piacerebbe raccontare la casualità che ha portato a questo articolo. In effetti una serie di eventi fortuiti, come la semplice richiesta di una foto, danno ancora la possibilità di far conoscere meglio un posto storico, oltre ad una piccola storia personale. Ero poco più che dodicenne quando mio fratello Luca mi portò a fare la mia prima via in montagna, esattamente la “Roberta 83”, e il mio ricordo più vivo è che lui scalava a piedi nudi, complice forse la voglia di emulare i bravi arrampicatori del momento.

Gli anni trascorsero, e il mio livello mi permise finalmente ciò che fino ad allora avevo potuto solo immaginare, e che per quei tempi e luoghi era una sorta di “iniziazione arrampicatoria”: scalare in Val San Nicolò. Gli incontri fugaci con i miti di quei tempi, come Heinz Mariacher, Luisa Iovane, Bruno Pederiva, che non a caso non si sono persi ma continuano anche ai nostri giorni, erano una sorta di apparizione per giovani alle prime armi, come noi ci sentivamo. Incutevano quasi un certo timore reverenziale. Se ci ripenso ora mi viene da sorridere, ma sul momento l’emozione di vederli scalare era paragonabile a quella che immagino possa provare un giovane calciatore vedendo dal vivo il suo giocatore preferito.

La Val San Nicolò si è evoluta negli anni ma è sempre rimasta una falesia storica, per la bellezza del luogo e dei tiri e perché scalandoci sopra si può quasi sentire, intuire, che è proprio qui che si è plasmata la storia dell’arrampicata sportiva, attraverso il lavoro di tanti personaggi che a questo hanno dedicato la propria vita. Da questo dovrebbe derivare il rispetto delle nuove generazioni, che hanno in un certo senso trovato la strada spianata, per questi luoghi e queste persone. Nel corso degli anni, in primis Heinz e Bruno, hanno chiodato svariati itinerari, molti già liberati, altri in attesa di una prima ripetizione. In questo luogo, fra gli scalatori che lo frequentano, vige ancora la regola che chi attrezza una via ha una specie di diritto di precedenza nel liberarla, a meno che lui stesso non decida di “cederla” a qualcuno. Il che vuol dire permettergli di provarla ed, eventualmente, liberarla. Proprio da qui inizia l’esperienza che voglio raccontare.

La Val San Nicolò, per me, è un’ancora di salvezza in estate, quando per impegni di lavoro non posso spostarmi. Così, l’estate scorsa, in varie di queste occasioni, il mio sguardo si posava spesso su una magnifica placca, che fa da specchio al “Sasso delle Undici” e che è seguita da un tetto gigantesco. Pur sapendo dell’esistenza di un itinerario attrezzato da Heinz, con lui non ne avevo mai parlato, forse per una forma di rispetto non conoscendo i suoi propositi. Quando però un giorno, scendendo dopo una scalata, lui me ne parlò, e in poche, efficaci e ben pensate parole mi fece capire che i tempi erano maturi perché qualcuno andasse nuovamente a provarla, ne fui subito entusiasta.

Così poco tempo dopo mi ritrovai, con il solito Stenico, ingaggiato su qualcosa di particolare, ancora una volta lontano dai soliti canoni. Non voglio soffermarmi troppo sugli aspetti tecnici della via, posso dire che il tiro parte da una cengia, ha un grado di 8b/c ed è lungo 45 metri. La prima parte è in tipico stile San Nicolò, con allunghi su buchi che costellano questa roccia calcarea, e precede il grande tetto dai movimenti atletici e allo stesso tempo aerei e spettacolari, che quasi per gioco ti fanno danzare a più di cento metri da terra e che mi hanno fatto provare le stesse sensazioni di chi mi ha preceduto più di vent'anni fa...".

Per me sono proprio queste sensazioni, che si ripetono e che possono accomunare generazioni passate e future, la forza e l’essenza della scalata. Sono emozioni che non risentono del tempo che passa, ma che continuano e continueranno alimentate dalla stessa passione.

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